Laugh Track The National
7.5

L’uscita di Laugh Track dei National è stata annunciata a sorpresa durante due date di Cincinnati, in quello che è stato un homecoming in tutti i sensi. Due appuntamenti speciali in cui la band ha suonato per intero High Violet (2011) e, alla luce di un ascolto approfondito del loro ultimo lavoro, forse non è stato un regalo del tutto casuale.

La prima cosa che si percepisce ascoltando il decimo disco dei National è la medesima immediatezza lirica e strumentale del predecessore First Two Pages of Frankenstein. Laugh Track per la maggior parte dei suoi quasi sessanta minuti suona come il suo seguito ideale. Rilasciare due album nel giro di pochi mesi è una cosa che fanno in pochissimi, l’anno scorso è successo con i Red Hot Chili Peppers. In quel caso tutto era nato dalla gioia e dal divertimento che aveva procurato il ritorno in studio di John Frusciante. Il risultato era stato soddisfacente a metà, sarebbe bastato un unico disco con i migliori pezzi di Unlimited Love e Return of the Dream Canteen.

Lo stesso discorso però non vale per i National. Laugh Track, ad eccezione di Weird Goodbyes, è stato scritto per la maggior parte nei momenti di pausa del loro tour. Ed è anche per questo che segue la stessa linea d’onda dei FTPOF per gran parte della sua durata.

Ph. Josh Goleman

L’album si apre con Alphabet City, un brano scritto da Bryce Dessner che musicalmente non rende troppo giustizia al testo. La pecca è la dinamica della canzone che non raggiunge mai un apice che ci si aspetta dai fraseggi di pianoforte e dalle incursioni della batteria di Bryan Devendorf.

Per fortuna, proprio dalle percussioni e dai power chords parte la seconda Deep End (Paul’s in Pieces). Potrebbe essere un’esagerazione, ma si tratta forse della canzone più bella delle 23 pubblicate quest’anno. Il ritmo incalzante è l’equivalente di una corsa senza ostacoli, immersa nelle note distorte di chitarra elettrica che creano una melodia di accompagnamento parallela al canto di Matt Berninger. Poi arriva il ritornello liberatorio e subito tornano in mente i crescendo di High Violet.

La prima parte del disco approfondisce e porta a termine le tematiche principali di FTPOF. Weird Goodbyes, insieme a Bon Iver, come suggerisce il titolo, parla di separazione. Era stato un delitto non includerla nell’ultimo album, ma ora si comprende il perché. In Laugh Track costituisce una sorta di primo capitolo di una trilogia di tracce che hanno a che fare con la stessa tematica del distacco e della fine di una relazione.

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Turn Off the House da questo punto di vista riparte esattamente dove terminava Eucalyptus. Ci sono meno oggetti, ormai sono stati tutti inscatolati. È giunto il momento di abbandonare la casa, aprendo le finestre per far uscire il dolore e aprirsi a una nuova fase. La spazialità del suono degli arpeggi di chitarra, gli archi appena accennati in sottofondo, un altro buon ritornello e una batteria di nuovo corposa e repentina, come ai tempi di The Boxer e Alligator, suscitano una nostalgia positiva che toglie il fiato.

Matt Berninger ha raccontato di aver sofferto di depressione, una crisi che ha quasi portato allo scioglimento della band. Ora che il blocco dello scrittore ha lasciato spazio alla voglia di espellere, adesso che suonare in concerto «non è più come andare dal dentista», diventa anche più semplice parlare dei meccanismi della mente. La titletrack, terzo featuring con Phoebe Bridges, riaffronta il tema, come era accaduto nel disco precedente, e conclude il trittico lirico sulla separazione. L’inizio del brano rimanda alla stupenda Cool About It delle boygenius, ma poi non mantiene del tutto le promesse. Rimane statico, ad eccezione del finale in cui subentrano gli ottoni. Se paragonato agli altri due brani in collaborazione con la cantautrice, questo si piazza nel mezzo: tra This Isn’t Helping e Your Mind Is Not Your Friend.

Hornets percorre lo stesso sentiero, unendo il pianoforte e le chitarre in un folk-rock che scivola ben presto nella ballad. La presa di coscienza della fine di una relazione si traduce in un passo avanti lirico e strumentale. «I don't need to be rescued / I just need to be pinned» canta Matt Berninger.

L’immediatezza funziona come la chitarra elettrica che affianca la sua voce da metà pezzo in poi e ancora una volta gli ottoni della coda.

The National promo pic 2023
Ph. Josh Goleman

Laugh Track non è esente da tracce filler che non convincono a pieno e che rallentano la marea emotiva, anche dopo diversi ascolti. Tra queste rientrano Dreaming, un mix tra lo stile di High Violet e Trouble Will Find Me che non riesce a salvare neppure il suono quasi shoegaze delle chitarre nel finale, e l’eccessivamente lunga Coat on a Hook. Un brano che dopo i primi due versi ha già raccontato tutto quanto e che rimane piatto persino quando tenta di decollare.

Discorso diverso per Crumble, in featuring con Rosanne Cash, che è costruita come una canzone radiofonica. Il ritornello canticchiato dalle due voci funziona e assolve al proprio ruolo di piccolo tormentone che rimane in testa. I National qui vestono un abito inedito, più immediato, abbandonano il parlato e prediligono la melodia.

Di livello più alto, sia per lo storytelling, che per le emozioni che suscita, è Tour Manager che si apre a una doppia interpretazione. Quella letterale, suggerita dal titolo, sembra far riferimento alla crisi vissuta da Matt che qui sembra chiedere di scendere dal palco.

Alice, do what you can
To get me out of this plan tonight
Maybe you can say I
Wanted to make it, but I won't get back in time

I momenti più belli del disco sono quelli più lunghi e quelli in cui la band esce fuori dai confini che sembra essersi quasi auto-imposta per questi ultimi due lavori. Il primo è la ballad Space Invader, prima anticipazione di Laugh Track. E pensare che per i primi secondi, il pianoforte e la chitarra acustica, fanno temere per un’ennesima traccia riempitiva. Poi per fortuna parte la batteria e la sequela di «What if» che fanno salire la tensione e creano il classico vuoto in pancia. In pieno stile Terrible Love, dal minuto quattro, fino al sesto inoltrato, parte una coda in crescendo che speriamo di poter ascoltare live in Italia prima o poi. Lo spoken sussurrato di Matt assume quasi il ruolo di basso, mentre la batteria è un’esplosione orgasmica.

Il brano più lungo, non solo del disco, ma di tutta la carriera dei National, è però Smoke Detector. Quasi otto di chitarre e basso distorto per un finale che costituisce una fine e un possibile nuovo inizio. Ambientata in un hotel claustrofobico, il finale sembra fa riferimento a un tentativo di suicidio con uno storytelling essenziale e tutto parlato in modo drammatico. I colori cupi rimandano a Sleep Well Beast, lo stile post-punk ad Alligator.

Il disco si chiude nel miglior modo possibile e sembra mettere un punto a questa fase auto-riflessiva della band. Questo decimo lavoro si regge da solo, ma rimane comunque inscindibile dal suo predecessore, il che è un bene e un male. Dipende dal punto di vista che si vuole adottare. Il giochino di crearsi l’album perfetto unendo i migliori brani di FTPOF e LT si può anche fare, ma perderebbe di senso il percorso.

Laugh Track è un altro disco che farà piacere ai fan del lato più emotivo e sentimentale della band. Rimane sullo stesso livello del proprio predecessore e in alcuni frangenti spicca il volo, nonostante il numero maggiore di riempitivi e la noia che rischia di minacciare un ascolto ripetuto. Resta comunque nelle orecchie un senso di soddisfazione e soprattutto il desiderio di conoscere il sentiero che intraprenderà la band dopo una bomba come Smoke Detector.

The National promo pic 2023
Ph. Josh Goleman