Jinte Deprez non è uno che riesce a stare con le mani in mano per troppo tempo. Dopo una vita passata nei Balthazar (che avevamo intervistato qui), nel 2017 ha pubblicato il suo primo album solista dietro al nome di J. Bernardt. "Un modo per nutrire il mio ego, che devo tenere a freno con i Balthazar" mi dirà durante la nostra chiacchierata. Il suo nuovo album Contigo nasce come il classico dei cliché: lui che viene mollato dalla fidanzata, raggiunge il fondo e pian piano riesce a risalire la china grazie a quello che gli riesce meglio nella vita, fare musica. Un disco interamente incentrato sulla fine della sua relazione. Molto personale, eppure proprio per questo universale. Le canzoni d'amore sono spesso infarcite di cliché, ma per J. Bernardt non è un problema, anzi col passare degli anni ha capito che spesso gli stereotipi sono tali perché veri.
Ecco cosa mi ha raccontato il musicista belga, direttamente collegato dal suo (ormai ex) appartamento, dove si è rinchiuso per scrivere l'album.

Vedo un po’ di strumenti dietro di te. Sei a casa o nel tuo studio?
Sono a casa, cioè in una delle mie case. Questa è quella a Gent ed è dove ho fatto l’album. È un po’ incasinata ora, perché mi sto per trasferire a Bruxelles. Non potrei scrivere un altro disco qui dentro, impazzirei. Devo andarmene.
Stai già pensando al prossimo disco?
Ogni volta che pubblico un album, inizio subito a scrivere quello successivo. Sono sempre un po’ a disagio quando faccio uscire nuova musica. Lavori per 2 anni a qualcosa, ne sei super orgoglioso, ma allo stesso tempo pensi che non puoi continuare a farti le seghe mentali su ogni dettaglio di quel lavoro e quindi inizi a pensare a quello successivo.
Quindi ogni tuo album corrisponde sempre a un posto diverso dove scriverlo? Dove avevi registrato il precedente?
Esatto, quello è stato un paio di case fa (ride, ndr). Era un posto molto piccolo, un appartamentino in affitto con la mia ragazza dell’epoca. E pure quello era nato da una rottura… Il solito casino. Avevo registrato tutto in uno stanzino e avevo comprato il mio primo sintetizzatore e altre cose che ora ho qui da me. Era stato claustrofobico, non potevo muovermi.
È una cosa molto interessante: negli anni ho avuto modo di intervistare band e artisti che magari mi dicevano quanto fosse importante per loro avere uno studio di riferimento. Tu invece devi cambiarlo ogni volta.
È il mio modo di lavorare, devo farlo altrimenti non mi sentirei a mio agio. Dopo un album del genere non sarebbe possibile per me rimanere in questo posto (ride, ndr). Adesso a Bruxelles inizierà un nuovo capitolo della mia vita e porterò lì il mio home studio. Sono felice di questo cambiamento.
Comunque è una bella coincidenza: anche Ha Ha Hearbreak - l’ultimo album del tuo compagno di band Warhaus - parlava della fine della storia d’amore con la sua ex.
È vero, noi due abbiamo sempre lo stesso numero di relazioni e di rotture! Siamo come i monaci di un monastero che fanno sempre le stesse cose a ripetizione (ride, ndr). Mi ricordo che quando aveva pubblicato Ha Ha Heartbreak, gli avevo detto che pure io stavo affrontando la stessa situazione. Penso sia la bellezza di avere dei progetti solisti paralleli, sono temi molto personali ed è bello poterli affrontare in questo modo.

Contigo è un titolo molto chiaro, dato il contesto e tutto il resto. Come mai hai scelto proprio lo spagnolo?
… e perché non l’italiano? (ride, ndr)
Esatto! (risate, ndr).
Non lo so, è stato un grande errore e me ne pento (ride, ndr). Ho viaggiato molto in solitaria in quel periodo, non lo avevo mai fatto prima. Avevo bisogno di riscoprire me stesso, prendere le distanze da tutto e tutti. Sto imparando lo spagnolo (anche l’italiano in realtà) e una delle mie parole preferite ancora prima di mettermi a studiarlo era proprio contigo. So che non è uno dei titoli più originali, ed è forse pure sdolcinato, ma mi piaceva che anche Enrique Iglesias avesse scritto una canzone con lo stesso titolo. Il motivo per cui è in spagnolo era che ero in Spagna in quel periodo. Tutte i testi delle canzoni sono una sorta di monologo per la mia ex fidanzata. Parlo del tempo che abbiamo trascorso insieme.
C’è stato un momento in particolare in cui hai capito che quello doveva essere il titolo?
Mi ricordo perfettamente il momento che ho scritto quella parola a computer, ero in spiaggia nei Paesi Baschi e il mio Mac era ricoperto dalla sabbia e ho pensato “ah, fanculo! Sono in vacanza e dovrei essere artisticamente produttivo e passo il tempo a pulire il mio computer”. È stato in quell’istante che ho pensato per la prima volta alla parola Contigo, non so perchè.
Ho trovato interessante il fatto che sei consapevole che un disco su una rottura sia un cliché e che solo crescendo ti sei reso conto di amare gli stereotipi.
Da adolescente vuoi ribellarti a tutto e trovare una “nuova verità”, finché non cresci e capisci che la tua “nuova verità” è la stessa identica di quella di altre persone vissute molto prima di te. Il fatto che ora i giovani inizino di nuovo a riscoprire i Nirvana la dice lunga in questo senso. Anche noi coi Balthazar agli inizi eravamo molto testardi, pensavamo che avremmo fatto cose mai sentite prima, finché non capisci che sono tutte stronzate e sei come tutti gli altri: fai le stesse cose di qualcun altro vissuto molto prima di te.
Anche con i testi, cerchi di fare qualcosa di mai fatto prima, finché non arrivi al punto in cui ti rendi conto che chi sta attraversando la fine di una storia d’amore, si mette ad ascoltare canzoni piene di cliché, perchè gli dà conforto. Alla fine capisci che tutte le altre persone hanno passato i tuoi stessi momenti bui. Da giovane non ci prestavo attenzione, ma ora capisco che la musica è così importante proprio perché riesce a connettere le persone. Ho scritto un album molto personale, perché dovevo tirare fuori tutto quello che avevo dentro. E ora che è uscito mi fa strano, mi rendo conto che proprio le persone che hanno o stanno attraversando un periodo analogo sono quelle che più si sentono legate alle canzoni che ho scritto. Ed è un cliché bellissimo, e se è tale è solo perché è vero. È inutile opporsi: la magia della musica è semplice e incredibile.
Si dice che una volta pubblicato un disco non appartiene più all’autore, ma a tutti quelli che lo ascoltano.
Assolutamente sì. È la mia storia, è molto personale, però alla fine si tratta di situazioni vissute da tutti. È il paradosso di sentirsi così unici e soli, nonostante siano esperienze che comuni a tutti.
In Contigo c’è tutto il tuo background musicale, a partire dagli archi e da quel violino che suonavi da piccolo.
Sai, era questo bambino fastidioso col violino… (ride, ndr).
Quali erano i tuoi compositori preferiti all’epoca?
Vivaldi e Čajkovskij. Il primo per me era sempre molto gioioso, mentre l’altro drammatico. Riassume bene i lati che avevo da piccolo: uno molto vivace, l’altro più tetro. Giravo sempre in casa con il violino e tutti mi dicevano di fare silenzio e tornarmene nella mia cameretta a suonare (ride, ndr). Mi ci sono voluti un po’ di anni per arrivare alla musica pop.

Ho letto che il tuo disco preferito dell’anno è Wall of Eyes degli Smile, anche quello pesantemente influenzato dagli archi. Pure tu ascolti tanta musica neoclassica come Jonny Greenwood?
No, non molto. I vinili di musica classica che ho sono dei compositori che ascoltavo da piccolo. Adesso ascolto principalmente musica chitarristica, ultimamente mi sono fissato con gli Hermanos Gutiérrez, e ho pure preso lezioni di chitarra. Usare gli archi nel “pop”, se così lo vogliamo chiamare, come magari facciamo io o Jonny Greenwood ti fa riflettere su come tu possa implementare elementi diversi nella tua musica. È una cosa molto interessante, perché nella musica pop non puoi fare proprio tutto quello che vuoi, e questo ti mette alla prova. Comunque per tornare alla tua domanda, no, al momento non sto ascoltando nessuna musica classica pazza, altrimenti il mio prossimo album sarebbe davvero strano (ride, ndr).
A proposito dei Balthazar, avete in programma un nuovo album?
È presto per dirlo. Maarten (Devoldere, ndr) sta facendo un nuovo disco, io l’ho appena fatto. I Balthazar sono stati la nostra vita per vent'anni e io e lui abbiamo scritto praticamente tutto insieme. Quando lavori per così tanto tempo con qualcuno, non sai dove inizia uno e finisce l’altro. È questo il motivo per cui nel 2016 abbiamo deciso di intraprendere dei progetti solisti paralleli. Per noi era logico esplorare chi fossimo in quel momento. Poi le nostre rispettive carriere soliste sono andate molto bene ed è stata sicuramente una cosa lusinghiera. Non solo, sono anche servite a far crescere i Balthazar: quando siamo tornati insieme con Fever abbiamo suonato nelle venue più grandi dove ci fossimo mai esibiti. Poter alternare fra l’essere solista e la band è una bellissima variazione: nei Balthazar devi tenere a bada il tuo ego e devi fare in modo che ogni membro possa esprimersi e venga ascoltato, mentre quando sei da solo è l’opposto e puoi fare sfogare tutto il tuo ego. Riuscire a fare cose in parallelo è salutare. Prendi per esempio gli ultimi tour fatti con i Balthazar: sempre più grossi, abbiamo suonato nei palazzetti. Una cosa che in realtà mi crea problemi… Preferisco suonare in posti più piccoli, di massimo 2000 spettatori, per creare una connessione più autentica e sudare insieme. J. Bernardt mi permette di farlo.

Credo fermamente nel fatto che devi suonare dal vivo per divertirti. Ed è il motivo per cui noi suoniamo tutto dal vivo, senza basi, a differenza di molte altre band che si vedono in giro. Tornare a suonare in posti più piccoli da solista è molto bello. Ed è lo stesso per Simon (Casier, ndr) ed il suo progetto Zimmerman e al momento siamo entrambi scrivendo nuova musica, quindi non siamo ancora pronti per tornare con i Balthazar. Ma sicuramente accadrà di nuovo. L’ultima volta ci siamo ritrovati al bar ed eravamo tipo “mi mancate ragazzi, quando faremo il prossimo album?”. Qualche tempo fa sono andato a un concerto di Warhaus ed ero super orgoglioso. Siamo un gruppo di amici che suona insieme e che ha anche i suoi progetti solisti. Magari domani faremo un nuovo disco con loro, ma per il momento voglio continuare ad esplorare come J. Bernardt.
Tornando al tuo album, in Taxi hai una lunga conversazione con un ipotetico tassista. Quanto di vero e autobiografico c’è in questo brano?
Ovviamente devo dire che quello che dico nella canzone è tutto accaduto realmente (ride, ndr), ma penso che la musica esista anche per romanzare un certo tipo di episodi avvenuti realmente, come nei film. Ovviamente c’è del vero in quella storia: avevo attaccato un pippone a un tassista riguardo alla mia rottura e quello è stato il punto in cui ho realizzato che avevo toccato il fondo ed ero depresso. Capisci di non essere messo bene, quando ti rendi conto di raccontare cose troppo personali al tassista di turno, che ovviamente è stanco, vuole solo tornarsene a casa e giustamente non gliene frega niente dei fatti miei. È una cosa che mi ha fatto riflettere, ho capito che non volevo essere quest’uomo che piagnucola e si piange addosso, e non volevo nemmeno che gli altri mi vedessero così. È una fase dove non riesci a controllare le tue emozioni, ma ti ci abbandoni completamente e in un certo senso è pure una cosa bella e romantica. Il taxi per me è una metafora del non essere capace di elaborare quel che sta accadendo: non lo controlli, non lo prevedi, ti travolge, ti fa venire un attacco di panico, e così ti aggrappi agli sconosciuti in cerca di conforto. In quel periodo ero molto estroverso, ne parlavo con tutti, chiedevo consiglio a tante persone. Taxi è nata così.

Il video della canzone è molto evocativo. Tu e i registi avevate in mente una moodboard specifica?
È stato tutto molto last minute. Avevo visto questo incredibile corto di Wannes Vanspauwen e Pol de Plecker (i registi del video, ndr) e volevo che avesse la stessa vibe calda e strana, perché rifletteva perfettamente come mi sentivo. Gli ho spiegato che la canzone era una via di mezzo fra una metafora e una situazione reale, e dato che il testo parla di come il tuo mondo venga capovolto, hanno avuto l’idea di trasporlo letteralmente nel video: io che cado da questo taxi rovesciato, che è un po’ la metafora di perdere il controllo della situazione. Tutto quello che è successo poi sul set è stato molto spontaneo: se avevamo un’idea, la provavamo subito; ad esempio mi hanno chiesto di camminare fra le macchine, di ballare: volevo farlo come Michael Jackson, ma alla fine il risultato è stato da Joker o… Ace Ventura! (ride, ndr) Alla fine ci siamo fidati gli uni degli altri e ci siamo divertiti molto.
Come sarà la resa dal vivo di questo album? Non penso che potrai portarti in giro un'orchestra.
No, non sono abbastanza ricco (ride, ndr). È vero, mentre registravo il disco mi sforzavo a non pensarci, perché volevo fare le cose al massimo potenziale possibile. Una volta finito, abbiamo iniziato le prove, per capire come trasporre tutto dal vivo. Abbiamo capito che la cosa importante non sono gli strumenti usati, ma la melodia. Sono molto orgoglioso del risultato finale e non vedo l’ora di suonarlo live. Penseresti che magari non è un disco così energico, eppure dal vivo è intenso: sarà uno show rock’n’roll per scuotere tutti, in primis me stesso. La mia band poi ha un tocco veramente delicato anche per brani drammatici e intimi come Left Bathroom Sink. Sono davvero entusiasta della resa live: sarà bellissimo e diverso dal disco, d’altronde è il motivo per cui uno compra gli album e poi va ai concerti, sono due cose differenti.
Hai mai pensato di scrivere una colonna sonora?
Sì, quando avevo 6 anni, solo che poi sono diventato un artista pop (ride, ndr). È abbastanza ovvio chiederselo dopo un album come questo, ma sai, già con i Balthazar abbiamo sempre fatto musica molto cinematografica. Tutto quello che sto scrivendo ora lo tengo per me, voglio scrivere più album possibili, e fare una colonna sonora mi farebbe dire “no, voglio usare questa musica per il mio disco solista!”. È una lotta dentro la mia testa, ma forse un giorno chissà… Mi piace il fatto che quando vedi un film la colonna sonora ti aiuta ad elevare o contraddire un’emozione suscitata dalle immagini. È una cosa che sicuramente mi interessa molto, ma per ora non ho mai avuto il tempo per dedicarmici.